giovedì 22 marzo 2018

Biodynamique e mostri marini

Fortunato ospite della giornata "Lovely Wines" organizzata dal gruppo Gussalli Beretta nell'Azienda Orlandi Contucci Ponno a Roseto(Te), vengo a raccontarvi di meraviglie, ricchi premi e cotillon da cui, in una bella giornata di primavera, un manipolo di "addetti ai lavori" è stato travolto.

La giornata funziona così: banchi di assaggio libero di tutte le etichette del gruppo (dal Piemonte, alla Toscana, fino al Taburno; dall'Alto Adige al Friuli, fino all'Abruzzo, dalla Franciacorta all'Alsazia fino alla Champagne e altri luoghi che non ricordo), ristoro a base di tipici d'Abruzzo, con in evidenza i Salumi Fracassa (provare per credere), arrosticini e finger vari ed eventuali;  qualche pausa per l'approfondimento di alcune etichette e/o zone di produzione.
Quindi, mezzo assassinato dal tour de force trascino le stanche membra fino alla saletta delle degustazioni guidate. Sono le 17, la rosea freschezza mattutina che sfoggiavo alle 10.30 si è fatta benedire già da tempo, ma d'altronde la vita è sacrificio si sa.

Il focus informativo-degustativo riguarda la Maison Leclerc Briant a Epernay. Champagne mesdames et monsieurs, ça va sans dire.

La casa

Maison fondée nel 1872 da Lucien, piccolo récoltant, ha avuto il suo sviluppo con Bertrand sposando Jacqueline Briant che portò in dote vigne e cantina ad Epernay (la vita, l'amore, le vigne...). E' stata tra le aziende pioniere della biodinamica in Champagne. Oggi con innesto di capitali e proprietà americana, si muove in continuità con la tradizione aziendale. Conta circa 9 ettari di proprietà (4 di Pinot Nero, 3 di Meunier e 2 di Chardonnay), più l'acquisto diretto da altri récoltant fino al volume di produzione di 15 ettari totali. I vigneti sono situati nella valle della Marna, a Cumières, Damery, Dizy, Hautvillers e Verneuil in particolare per una produzione annua è di 300000 bottiglie circa.

In degustazione:

1. un'etichetta della linea "Les sélections parcellaires", con lo Chardonnay "La Croisette"
Come dice il nome si tratta di selezioni di parcella, perciò in numero limitatissimo di bottiglie, in ogni caso meno di 10000 provenienti da vigneti identificati con rese/ettaro antieconomiche. Ciò determina anche un elevato prezzo finale della bottiglia, per i tre assaggiati intorno a 120 euro in media acquistando online. Per palati fini..

2. "Pure Cramant" Blanc des Blancs, Grand Cru 

3. "Blanc de Meunier", Prémier cru.


1. La Croisette


E' uno chardonnay 100% proveniente da un parcella di poco più di mezzo ettaro ad Epernay, 12%vol. e dosaggio zero.

Si esprime al calice con un'abbondante spuma superficiale seguita da perlage finissimo e numeroso, che ravviva con spunti luminosi un giallo paglierino profondo e un po' virato al dorato.
Vendemmia 2012, il vino base matura in capaci tonneaux di rovere francese segue il lungo affinamento nella caves sotterranea della maison.
Naso articolato con camomille in evidenza, seguono un vegetale di bosso, selce, uno spillo di balsamico in un quadro di burro caldo.
In bocca è secco e morbido, la rotondità quasi pastosa del sorso è subito equilibrata da una mineralità antologica. Perfino la freschezza ne resta come intimorita. Finezza e buona persistenza completano il quadro.

90/100





2. Grand Cru Blanc des Blancs "Pure Cramant"

Dai terreni ricchi e gessosi di Cramant arriva questo Blanc des Blanc di gran classe. Cramant (=mont de craie) è tra i più nobili e preziosi Grand Cru dell'intera Champagne.
Alla fine risulterà il mio preferito per finezza, piacevolezza complessiva e bouquet gusto-olfattivo.

E' di un giallo paglierino vivo e profondo, dal perlage fine numeroso e persistente. Apertura al naso di gran classe e complessità: floreale di fiori freschi, nota fruttata a polpa bianca, zeste di limone e un tocco di vaniglia affogata in crema pasticcera, biscotti caldi al burro, una sottile scia di gesso.
In bocca è corposo e ... gustoso. In equilibrio perfetto: il passaggio di botte per la fermentazione e la maturazione del vino base contribuisce a mantere in pari il piatto delle morbidezze con la sapidità imperante.
Intensità, persistenza, finezza complessiva ne fanno un sorso pregevolissimo.
Rispetto al precedente, l'impronta del legno è meno marcante sia al naso che al gusto, ne beneficia la piacevolezza e la voglia di risorseggiare. Il dosaggio zero consente il ritorno minerale e succoso dalla retronasale di un gusto avvolgente pieno.
La grande eleganza e l'espressività generosa evidenziano terroir e operazioni di cantina condotti in modo rigoroso, nessuna aggiunta di solfiti in nessuna fase, nessuna "puzzetta" spiacevole. Meditate gente.

Non uno spumante da spendere con le patatine San Carlo...Solo con aragosta per favore!

93/100



3. "Blanc de Meuniers", Prémier cru.


Dopo il Blanc des Blancs, chiude il trittico il Blanc des Noirs. Da una parcella di 1 Ha in Prémier Cru di solo Pinot Meunier. L'aspetto è piacevole e perfetto come i precedenti, il colore un po' più profondo. Il naso gioca attorno a tre principali profumi: arachidi o noccioline un po' tostate, nota fruttata candita e la buccia di un bergamotto. Intorno a questi, tutto un mondo di spezie, un fumè da sigaro, un forno di pasticceria e un buon fondo minerale.

In bocca la sensazione è quella di un soufflé infilzato in una lama: corposo e verticale, rotondo e salino. Maggiore l'intensità della persistenza, ma l'equilibrio è allo zenith. Rispetto al precedente, dove il corpo rotondo e sinuoso riempivano con generosità il palato, qui la mineralità elevatissima e le bollicine croccanti danno la sensazione opposta. Lì prevaleva la palato una forza calma, qui c'è un'energia vibrante. Equilibrio e finezza anche qui, ma un equilibrio "altro". Dov'è la rusticità del Meunier? dove la scarsa eleganza? mah...

90/100

Per concludere, visto che la vita è sempre sofferenza, per lenire questa nostra via crucis ci viene contagocciata la chicca della casa: il mostro marino di cui sopra! Pensa che sfortuna..



Abyss Millesimé 2012, Brut zéro
Pinot Meunier 40% Pinot Noir 40% Chardonnay 20%

Stando calmi! Non vi eccitate come delle voci bianche all'Opera. Tutti sono a conoscenza della storia del bastimento carico carico di... champagne Veuve Cliquot destinato alla corte dello zar e affondato nel Baltico alla fine del '700. Duecento anni dopo, rinvenute una manciata di bottiglie, chi le provò ne rimase estasiato. Da allora, dagli ad affondare bottiglie a tutte le latitudini. E vai a cercare la salinità marina dentro la bottiglia.
Per tornare un po' con i piedi per terra e non dans l'eau. L'effetto della profondità marina è essenzialmente quello di "fermare l'evoluzione" nel senso che i sentori permangono sui toni primari e secondari, che le molecole di polifenoli non polimerizzano o lo fanno con difficoltà.
Nel nostro caso, le uve provengono dalle vigne che esprimono maggiore sapidità e mineralità dell'azienda. L'assemblaggio è il classico 40-40-20 e tutte le fasi, come prevede il disciplinare avvengono in Champagne, a terra e sottoterra. Poi, una volta degorgiate, le bottiglie vengono immerse a 60 metri di profondità al largo di Brest e qui riposano più o meno a lungo.
Come si intende, l'operazione ha un qualche costo e voi golosastri potrete acquistare un mostro degli abissi per meno di 250 euro. 
E il risultato sarebbe questo: giallo paglierino con qualche riflesso dorato e consueto perlage fine. Fruttato di polpa gialla al naso, vegetale di macchia mediterranea, minerale di pietra bagnata e una chiusura di nota iodata. 
In bocca è secco e morbido, con acidità spiccata e sapidità elevata, il tutto in equilibrio. sorso croccante e di spessore. Levigato e di classe, con buona persistenza. Fresco e con parvenze di gioventù, forse retaggio marino.
Vale la pena? Bagliori di gioventù dalle profondità marine. Piacevolissimo, meditiamo.

91/100

In definitiva, Leclerc Briant è probabilmente la migliore o tra le migliori maison di Champagne in biodinamica e come tale opera in modo maniacalmente preciso non sull'identità del terroir, quanto sull'identità della singola vigna.
L'attenzione e la precisione delle tecniche di cantina ed in vigna dovrebbe fare scuola a tanti naturali un po' boriosi: qui, nessun sentore animale, nessun odore spiacevole e nessuna giustificazione. Solo eleganza e complessità.
I prezzi non sono popolarissimi, ma neanche campati in aria: tutto è rapportato ai costi di produzione. Per spese modiche c'è sempre la linea classica.
Poi, nel quadro di una qualità sempre elevata, le diverse tipologie possono piacere più o meno. A me alcune sono molto piaciute, ma riguarda la sfera personale.
Conferma al mio empirico dogma che i biodinamici vengono meglio con uve non perfettamente mature e da climi freddi.  

Addìos!









martedì 13 febbraio 2018

Il Dress code non fa il vino..

di Raffaella De Laurentiis















Giacomo Ceruti, il Pitocchetto, "Gli spillatori di vino" Olio su tela, collezione privata




Dopo aver frequentato diversi eventi relativi al vino, fiere, degustazioni (formali e non) sono arrivata
a questa conclusione: ma perché ci si deve mettere in ghingheri per bere un bicchiere di vino? Pensiero estemporaneo: mio nonno, che amava fare il vino per il fabbisogno familiare, mica si metteva il vestito della festa per sedersi a tavola e bersi un bicchiere!  Chi  ha avuto l’occasione di girare tra le varie iniziative che ruotano intorno al mondo del vino, ha potuto di certo notare le mise, a dir poco originali, del variegato popolo di produttori e assaggiatori. Vi assicuro che se ne vedono delle belle, o meglio, delle brutte! Naturalmente a dare il “meglio” siamo noi femminucce, se non altro perché abbiamo un’ampia possibilità di scelta su come combinare fantasiosamente le varianti che la moda ci offre. In alcune occasioni, vi giuro, sono arrivata anche a desiderare di essere una muffa, pur di non guardare lo scempio che mi sfilava davanti. I maschietti invece hanno un range più ristretto, al massimo possono optare per un colletto alla coreana, decidere per cravatta sì cravatta no o osare con gli immancabili pantaloni rossi o gialli che puntualmente fanno la loro comparsa. E poi…purtroppo sono poche le persone che possono permettersi di indossare giacche di velluto con le toppe sui gomiti, maglia a collo alto o orologio nel taschino  non per ostentazione ma per classe innata. Il resto è solo vinaccia spremuta.

Comunque, il minimo comune denominatore di tutto ciò non è altro che la voglia di apparire ed essere ad ogni costo originale perdendo di vista il senso di ciò che si trova nel bicchiere.

Fermiamoci quindi un attimo a pensare: da dove arriva quel fantastico liquido che ci ritroviamo nel bicchiere? Dall’uva. Da dove proviene l’uva? Dalla vigna. Come ci vai in vigna? Con lo smoking o coi tacchi a spillo? No! Con i pantaloni verde militare coi tasconi, con le scarpe da lavoro, con una felpa, con una camicia di flanella e con un giaccone e quando fa caldo con una t-shirt. Che colpo di stravaganza sarebbe se nelle fiere si trovasse gente vestita come quando si lavora in vigna, persone che della vigna se ne occupano materialmente, come per esempio chi pota o chi vendemmia!
Spesso queste persone sono contadini di una certa età, che sono cresciuti in vigna e alla cui esperienza ci si affida per curare le viti, dimenticandosi spesso che se non fosse per loro la bottiglia sarebbe vuota. Naturalmente tra coloro che si occupano della vigna ci sono anche tantissimi produttori che si sporcano le mani con la terra, per fortuna, e proprio per questo mi piacerebbe se alcuni di loro scendessero dal piedistallo e cominciassero a raccontare come si fa veramente il vino, senza tanti fronzoli, paroloni o tecniche oratorie che lo fanno passare come chissà quale bevanda miracolosa. Il vino viene dalla terra, quindi è qualcosa che ci appartiene concretamente, la vite ha radici profonde, è una pianta che sa sopravvivere, che sa scavare a fondo per andare a cercarsi ciò che le serve per vivere. La vite secondo me è una pianta “profonda” e basterebbe prendere esempio da lei per capire che il senso della vita è tutto lì e che non servono sovrastrutture. Spesso è tutto molto più semplice di come sembra.

Oh i bei cretini di una volta! Genuini, integrali.
Come il pane di casa. Come l’olio e il vino dei contadini.

Leonardo Sciascia (1921 – 1989)

giovedì 16 novembre 2017

E se poi la vita sa di tappo?

di Raffaella De Laurentiis





Oggi ho deciso di iniziare a scrivere senza avere le idee molto chiare su ciò che ne verrà fuori, perciò non garantisco la riuscita di questo articolo. A guidare i miei pensieri è comunque qualcosa che ha a che fare col vino, questa volta non inteso come bevanda da analizzare e alla quale attribuire un punteggio, ma piuttosto come veicolo di esperienze di vita. Quando ho deciso di iscrivermi al primo livello Ais per seguire la mia passione mi sentivo un po’ come ora: non sapevo dove mi avrebbe portato il percorso che stavo per intraprendere, né SE mi avrebbe portato da qualche parte. Sicuramente non immaginavo che dietro una bottiglia di vino ci potesse essere una sorta di chiave di lettura della vita stessa. A pensarci bene vite è il plurale di vita e  mi viene in mente che questa pianta ne vede passare tante di vite, infatti spesso una vite si “eredita”, dai nonni o  dai padri che la lasceranno ai figli, che la lasceranno ai figli dei figli ecc.ecc. Quante voci sentirà passare tra i filari, quante mani la toccheranno e ne prenderanno i frutti: da quelle di un bambino che si muovono a caso e si divertono a strappare i chicchi zuccherosi, a quelle più nodose, proprio come il tronco di una vite, che sanno già qual è il punto esatto in cui tagliare. Anche il ciclo della vita è uguale a quello della vite, c’è la fase di crescita, di maturazione e di vecchiaia. Durante la fase di crescita la pianta si prepara a dare i suoi frutti, così come le persone pongono le basi per quello che potrebbero diventare. Poi c’è la fase di maturazione, durante la quale la pianta produce i suoi frutti costantemente, così come le persone corrono spedite per definire i contorni di quel futuro che avevano immaginato. E poi alla fine arriva la vecchiaia e la pianta esausta produce solo qualche grappolo e si gode il meritato riposo, come le persone che fanno un bilancio per vedere se le “vendemmie” che hanno affrontato abbiano prodotto delle “annate” degne di essere conservate in cantina oppure solo “vino novello” che ha lasciato il tempo che ha trovato.

Con il passare del tempo ho imparato a capire il vino e soprattutto le sue sfumature. Già, le sfumature perché, come dice una canzone “ […] sono le sfumature a dare vita ai colori […]”. Che vita sarebbe e che vino sarebbe senza la presenza delle sfumature? La vita sarebbe piatta, senza nessun significato recondito e da scoprire e il vino sarebbe giallo, rosa e rosso senza il verdolino, il paglierino, il dorato e l’ambrato; senza il rosa tenue, il cerasuolo e il chiaretto; e senza il rosso porpora, il rubino, il granato e l’aranciato. E sono ancora le sfumature ad incuriosirci anche nella vita, per esempio, quando ci avviciniamo a qualcuno per la prima volta che cosa attrae la nostra attenzione? Certo, tolto l’aspetto “visivo”, che magari ci fa presagire che per noi potrebbe essere un’ottima annata, quello che ci colpisce può essere un gesto o una frase che magari per gli altri non hanno importanza, il tono della voce, tutte piccole cose che, tassello dopo tassello, vanno a formare quell’insieme perfetto che fa apparire la persona che abbiamo di fronte perfetta ai nostri occhi, così come un miscuglio di colori alla fine dà un unico colore che è proprio quello che serve per completare il quadro.


Ma forse la caratteristica più importante che lega la vita al vino è l’imprevedibilità. Non c’è niente da fare, puoi essere un bravo vignaiolo ed essere attento a controllare ogni eventuale imprevisto, così come puoi essere una persona leale e corretta nella vita. Ma… se la bottiglia sa di tappo? E soprattutto, se la vita sa di tappo, siamo sicuri di poterla sempre rimandare indietro?
P.S Vi avevo avvisato! Non sapevo dove sarei andata a toccare e forse non sono andata da nessuna parte. Beh se non siete riusciti a trovare un filo logico in questo articolo non fa niente, forse non vi siete impegnati, forse sono stata io che, volontariamente o involontariamente, non ho voluto farvelo trovare, forse semplicemente un filo logico non c’è o forse anche questo articolo sa di tappo.  Comunque, mentre vi interrogate sul senso di tutto ciò…beveteci sopra! Cheers!



martedì 11 luglio 2017

Questi posti davanti al mare

"Englishman in New York" di Sting avvolge l'abitacolo della macchina ed evapora dai finestrini aperti lungo la Statale Adriatica. E' un giugno caldo e arrivare a San Vito facendo un pezzettino di costa dei trabocchi è un attimo: ci voleva una boccata d'aria.. "Englishman in New York" è proprio adatta: esprime un senso di inadeguatezza ed una specie di orgoglio per quello che si è, anche quando sei un po' fuori posto, come un inglese a New York. Vado in visita da amici e dovrei essere tranquillo e rilassato. Invece, proprio perchè vado in visita da amici non sono rilassato per niente: si meritano attenzione, obiettività e precisione. Ma ecco il cartello stradale ad interrompere i pensieri: Vini Olivastri, sono arrivato.
L'azienza Tommaso Olivastri conta su una superficie vitata di circa quindici ettari, più della metà a Montepulciano d'Abruzzo, il resto è Trebbiano, Pecorino, Cococciola e Passerina. Tutti autoctoni, tutti i vini sono prodotti in purezza. Lo story telling classico e un po' trito dell'azienda di famiglia, dei vini del cuore e tutti i blablabla che spesso ci si sente raccontare, qui è vero. La storia inizia quattro generazioni fa con il nonno di Tommaso emigrato in America per cercare fortuna, non perchè qui il lavoro gli mancasse.. gli mancavano i soldi, per "fare un progresso" come dicevano i vecchi antichi. Corsi e ricorsi storici. Così, lavorando all'estero e mandando i risparmi a casa gli Olivastri cominciarono ad acquistare una soma di terra e poi un'altra fino a comporre un'azienda in grado di sostenere ambizioni e sogni della famiglia. Perchè a casa Olivastri conta il vino, ma molto conta la famiglia.
 Così, attraversando il Novecento arriviamo all'attuale generazione. Tommaso Olivastri (l'ultimo a destra nelle foto di sopra) ebbe l'ottima idea di sposare la sua vicina di podere, dall'ottima idea nacquero Chiara, Valentina e Federica e se vi recate in Via Quercia del Corvo a San Vito Chietino (Ch) potrete sentire una specie di rumore di fondo, tipo alveare. C'è Tommaso che trattoreggia, Chiara e Valentina che armeggiano in cantina in un moto perpetuo di produzione, imbottigliamento, spedizioni..

Quattro chiacchiere in cantina e veniamo al sodo, cioè al liquido. La produzione consiste di 35000 bottiglie/anno, oltre ai bag da 3 e 5 litri. Due linee principali: Quercia del Corvo e L'Ariosa. Export estero per circa il 60/70% in particolare verso Giappone, UK, Germania e USA. Sul mercato interno importanti fette finiscono in Piemonte e Lombardia.
 
In degustazione tutta la linea L'Ariosa, il Cerasuolo DOC Marcantonio e la riserva La Carrata.
Le uve de L'Ariosa vengono da un terreno al confine tra i comuni di Ortona e San Vito, a poche centinaia di metri in linea d'aria dal mare e ad un'altezza si poche decine di metri slm. Ciò determina una costante escursione termica dovuta alle brezze marine che si incuneano dal mare verso la collina ed un buon controllo dei livelli di umidità.
La vendemmia parte sempre nella seconda metà di settembre, con le uve perfettamente mature. Nel bicchiere si nota infatti che l'attenzione è più rivolta alla maturazione fenolica piuttosto che alla tecnologica: quindi minore profondità del colore, maggiore intensità dell'aspetto olfattivo, grado alcolico ben presente. I bianchi Cococciola, Passerina e Pecorino presentano così caratteri comuni ed interessanti: il colore è giallo paglierino tenue (leggermente più carico nel caso del Pecorino), con un bouquet olfattivo intenso ed abbastanza complesso giocato sui profumi di frutta, fiori di ginestra e macchia mediterranea. In virtù della piena maturazione del frutto, la concentrazione degli zuccheri genera un grado alcolico intorno ai 13%, una morbidezza piena ed un sorso certamente più rotondo che spigoloso. Il versante delle durezze è affidato ad una  sapidità quasi marina, che pareggia bene un'acidità di medio livello. Il risultato è piacevole ed in equilibrio, più di quanto la tipologia dei vini richiederebbe. Non stancano il palato i successivi sorsi ai quali si è chiamati grazie anche ad un finale di mandorla verde.
Il Cerasuolo DOC Marcantonio è un cerasuolo per antonomasia, di quelli che ormai devi cercare con il lanternino. Il rosso polpa di ciliegia profondo e vivo è frutto della polpa, senza neanche un minuto di permanenza sulle bucce. Bouquet classico di piccola frutta rossa matura, fiori rosa appena raccolti e una nota vegetale che dà freschezza al tutto. In bocca è caldo, secco e abbastanza morbido. Per l'acidità vale il discorso di cui sopra, buona sapidità. Equilibrio, persistenza e finezza.
Per finire la riserva La Carrata Montepulciano Riserva DOC, nel referendum nazionale barrique si/barrique no si iscrive al partito del si. Prima o poi bisognerà dire una parola chiara su questa spocchia tutta italica antibarrique.
Prodotto in un numero limitato di bottiglie, segue nella scelta del contenitore da affinamento la filosofia produttiva: a frutto ben maturo, vino ben strutturato e rotondo, legno piccolo a cesellare i tannini. I legni sono per metà di primo passaggio e per metà di secondo. Ne viene fuori un Montepulciano di grande spessore, con bouquet ampliato sulle spezie dolci. Il corpo è consistente e in bocca si esprime in ottimo equilibrio: è morbido, ma fresco, giustamente tannico e sapido. In generale la rotondità quasi sferica regala piacevoli sensazioni: vino da piatti strutturati seri, come da tradizione abruzzese, mai leggeri. Ma la sua vera vocazione è la meditazione: al tramonto di un giorno d'estate al Belvedere Dannunziano con un Toscano Garibaldi e una tavoletta di fondente con arancia candita a sentire il canto delle sirene.
L'azienda di Tommaso e delle sue figlie è una realtà identitaria, non potrebbe trovarsi in nessun posto diverso da questo e non potrebbe essere in nessun altro modo. Se proprio ti assale la scimmia dello scienziato pazzo sarebbe bello tentare un metodo classico a base cococciola, anticipandone leggermente la vendemmia. Così, per vedere l'effetto che fa quella sapidità che origina dal mare immersa in un fiume di perle.. così come un inglese a New York.
   

lunedì 12 giugno 2017

Mens sana in vino vero

di Raffaella De Laurentiis

 

Raffaella De Laurentiis è Sommelier e Degustatrice Ufficale AIS, inoltre è componente del panel della guida Vitae per l'Abruzzo, naso notevole, carattere fumantino: meglio non averla come concorrente in un concorso enologico. E' esperta conoscitrice di vino e non solo, con leggerissime predilezioni per: De André (Fabrizio e anche Cristiano), i gatti (!), il Sagrantino di Montefalco ed i passiti. E' la prima collaboratrice di questo blog e la ringrazio per il contributo e gli ottimi spunti. 

Buona lettura! (GDM)










Si dice che ognuno abbia una strada da seguire, che sia quella tracciata dalle orme dei  padri o una nuova che costruiamo metro dopo metro con le nostre forze. Nella storia che sto per raccontare le due strade si intrecciano, perché  lungo il cammino le orme dei figli si sovrappongono  con quelle genitrici e dall’incontro e dall’impegno comune nasce una nuova realtà, basata sull’apporto fondamentale di chi è nato prima e mette a disposizione tutto il suo sapere e chi è arrivato qualche anno dopo e crea un presente più al passo coi tempi.

Ma c’è anche un’altra strada da considerare in questo caso, ed è quella che ci ha portato fino all’Azienda Terenzi, in località La Forma nel comune di Serrone (Frosinone), Ciociaria settentrionale. Serrone è uno dei comuni che compongono la Strada del vino Cesanese insieme ad Acuto, Affile, Anagni, Paliano e Piglio, oltre a far parte con gli stessi comuni (ad eccezione di Affile) delle zone nelle quali è possibile produrre la Docg Cesanese del Piglio.

Al nostro arrivo veniamo accolti da Giovanni Terenzi, fondatore dell’azienda che oggi gestisce insieme ai suoi tre figli, uno dei quali, Armando, ci guiderà letteralmente nel tour alla scoperta non solo della cantina, ma anche di una parte dei vigneti. 
Armando ci fa gentilmente salire sulla sua auto e ci accompagna verso un vigneto situato nel comune di Piglio. Lungo il tragitto ci racconta la storia della sua famiglia: il padre e la madre provengono da due famiglie contadine, così dal loro matrimonio è stato possibile unire i terreni appartenenti ad ognuno e, intorno alla fine degli anni 50, cominciare ad avviare l’azienda che attualmente si estende su una superficie di circa 10 ettari. Negli anni ‘90 subentrano anche il signor Armando e le sue sorelle, una delle quali, Pina, abbiamo avuto il piacere di conoscere, scoprendo che anche lei è un sommelier e che oltre ad organizzare degustazioni in azienda si occupa anche dell’ufficio. Chiacchierando chiacchierando arriviamo a destinazione e davanti a noi si apre un piccolo angolo di paradiso.
All’ingresso c’è una bellissima quercia secolare e un piccolo rudere ristrutturato affiancato da uno spazio coperto da una tettoia dove si possono svolgere degustazioni all’aperto. Il vigneto appare curatissimo, la tecnica di impianto è il cordone speronato, le foglie sono di un verde vivissimo e tra di esse si cominciano a vedere già i primi grappoletti di Cesanese di Affile dai quali si otterrà il Cesanese del Piglio, DOCG nata nel 2008. Per fortuna la gelata del mese di aprile qui non ha fatto danni! La terra non viene smossa completamente ma a filari alterni e questo permette non solo di stressare meno il terreno ma anche di lavorare in vigna quando ha piovuto perché non si corre il rischio di impelagarsi nel fango. Rischio comunque molto basso perché il terreno essendo di medio impasto e calcareo è praticamente impermeabile. Per i trattamenti, non vengono usati fitofarmaci e infatti l’azienda ha iniziato la conversione in biologico. La superficie del vigneto è divisa in tre parti: dalle due parti superiori si ottengono i vini Colle Forma e Vajoscuro, dalla terza parte (che è quella più bassa e più umida per la presenza di un fiumiciattolo) si ottiene invece la versione base del Cesanese del Piglio. In una piccola parte del terreno si trova invece un appezzamento di sangiovese grosso dal quale si producono circa 1000/1200 bottiglie l’anno.

Riprendiamo la macchina e torniamo in cantina, dove visitiamo l'impianto di vinificazione e il primo vigneto impiantato nel 1962, proprio a ridosso del corpo aziendale. Dopo di che ci spostiamo nella bottaia dove, appoggiato sulle botti, si trova un pannello sul quale è scritta una frase che racchiude tutta la filosofia dell’azienda e che dice “ lasciamo che la terra lavori per noi ”. Questa frase comprende tutto ciò che abbiamo potuto constatare con i nostri occhi, a partire dal lavoro fatto in vigna che non stressa terreno e piante, ma che cerca di amalgamarsi con ciò che la natura dona. Per arrivare alla testardaggine del signor Giovanni, che ha iniziato a reimpiantare il Cesanese di Affile, il vitigno tradizionale, per difendere il suo territorio di appartenenza, dimostrando che spesso non bisogna andare chissà dove a cercare il vitigno giusto perché lo si può trovare proprio lì dove si è cresciuti. Bisogna solo avere il coraggio di riprendere la strada che qualcuno aveva iniziato a tracciare.

Dalla bottaia saliamo nella sala degustazione elegante, che attraverso grandi pareti di vetro realizza una continuità dentro/fuori tra il bicchiere e lo storico vigneto di famiglia. Armando, oltre ad intrattenerci in una piacevolissima conversazione, a cui poi si aggiungerà anche il signor Giovanni, ci fa assaggiare anche alcuni dei suoi gioielli:

Zerli 2015, Passerina del frusinate IGT:
100% Passerina, prima annata di produzione; 
inusuale, con affinamento in legno che amplifica il bouquet e dona rotondità al sorso. In ottimo equilibrio tra morbidezza e freschezza. Vengono usati lieviti autoctoni selezionati proprio per la passerina. Giallo paglierino, profumi delicati e gradevoli, una bella nota agrumata, e poi sentore di mandorla amara tipico del vitigno, sapido, fresco, con un bel corpo, equilibrato. Meritevole di un approfondimento a parte.


Velobra 2014, Cesanese del Piglio DOCG: 
90% Cesanese di Affile e 10% Sangiovese Grosso; frutto del più antico vitigno dell'azienda (1962). Si esprime con caratteri di franchezza e tipicità. Esclusivo affinamento in acciaio per 12 mesi e poi in bottiglia 4 mesi. Rosso rubino intenso con riflessi violacei sull'unghia. Naso intenso con bouquet definito su note fruttate di prugna e fiori rossi. Un ricordo di radice di liquirizia sul finale. Tannino moderato, seppure presente, ancora di buona freschezza e sapidità. Corpo ampio per sostenere l'abbinamento con secondi di carne rossa. Abbastanza persistente.


Colle Forma 2013 Cesanese del Piglio superiore DOCG:
Cesanese di Affile in purezza, prodotto nella seconda parte del vigneto che abbiamo visitato (quella centrale), affinamento in botte grande per 24 mesi e in bottiglia per circa 12 mesi. Appare rosso rubino di bella luminosità, con bouquet olfattivo ampio ed articolato: la nota fruttata si alterna con un vegetale appassito, le spezie piccanti sono presenti e ben amalgamate. Corpo e alcol si fanno sentire e danno nobiltà anche alla buona massa tannica. Equilibrato, fine e di buona lunghezza.





Vajoscuro 2013 Cesanese del Piglio superiore riserva DOCG: 

100% Cesanese di Affile, prodotto nella parte superiore del vigneto che abbiamo visitato (destinata alla più elevata qualità), svolge il suo affinamento in tonneau di rovere per 12 mesi e in bottiglia per 24 mesi. E' la riserva dell'azienda e così si presenta già nel bicchiere: austero all'aspetto con il suo rubino impenetrabile alla luce, l'unghia violacea è ormai sparita ma non ancora appare l'aranciato: nel pieno della sua maturità mostra di poter resistere ancora a lungo nel tempo. Alcoli e polialcoli sono importanti e roteando il bicchiere confermano l'importanza ed il corpo del nettare. Il bouquet è ampio e segnato in positivo dall'affinamento: fiori di violetta, more molto mature, note speziate suadenti. In bocca è pienamente caldo, secco e morbido. Abbastanza fresco, tannico e sapido con un equilibrio giocato sulla rotondità eppure sull'importanza del corpo. Persistente dopo averlo sorseggiato, lascia la bocca asciutta e pulita. Molto piacevole.



Nelle diverse declinazioni di questo Cesanese, si possono rintracciare dei tratti comuni che riguardano per esempio il colore (rosso rubino vivo, un po’ più impenetrabile nel caso del Vajoscuro), il profumo intenso, la presenza all’olfatto di frutta rossa matura (amarena e frutti rossi soprattutto) e sentori floreali (violetta e rosa rossa) e un po’ più di speziatura nel Vajoscuro. Una nota alcolica ben marcata che fa percepire il calore in gola per un bel po’ dopo la deglutizione (non sono vini leggeri), una bella acidità (testimoniata  anche dal colore  vivo). Sono vini di corpo nei quali il tannino pur presente non è mai invadente e questo, per quanto riguarda il Colle Forma e il Vajoscuro, è testimoniato dal fatto che svolgono la fermentazione malolattica. Per quanto riguarda gli abbinamenti ci si può indirizzare verso cibi consistenti, come i formaggi stagionati, piatti a base di carne rossa, arrosti, pasta al ragù, selvaggina.

Magari qualcuno si starà chiedendo il motivo del titolo di questa recensione…beh è semplice! Mens sana perché per noi, abituati ormai ad un mondo che va sempre più veloce e che spesso ci impedisce di fermarci a riflettere: il signor Giovanni con tutta la sua famiglia rappresenta un’isola felice in cui i valori sono ancora quelli autentici, quelli che insegnano a restare piuttosto che a partire, a lottare per qualcosa in cui si crede, a non vergognarsi delle proprie origini ma anzi a farne tesoro, a credere nella famiglia, a trovare la forza ogni giorno “fino a quando ce la faccio” (come dice il signor Giovanni) di lavorare la terra considerandola come un bambino che ha continuamente bisogno dell’attenzione di una madre per crescere bene. Ditemi voi se questi non sono segni di una mente sana!

E poi la verità del vino, perché nel vino della famiglia Terenzi si riscontra la stessa autenticità delle persone che lo producono e anche perché il Cesanese di Affile è un vitigno genuino, se vogliamo anche un po’ rozzo, nel senso che non ha l’eleganza di un pinot o di un syrah del Rodano settentrionale, ma è espressione di un territorio autentico, incontaminato che riesce comunque a dare dei bei risultati.

Alla fine di questo viaggio non mi resta che ringraziare la famiglia Terenzi per averci accolto, per averci fatto sentire a casa e per averci ricordato che la fatica e la costanza pagano sempre. 




venerdì 19 maggio 2017

Quattro amici al bar che volevano cambiare il Monto..nico

Se esci dal casello di Roseto degli Abruzzi e improvvisamente giri a sinistra, ti immergi nella frazione Pagliare di Morro d'Oro. Fallo in primavera e navighi tra lunghe teorie di collinette verdi e cieli azzurri, mentre lo fai ti perdi: devi andare da Vini La Quercia e lo sai benissimo dove sta, ma intanto ti perdi lo stesso. Però vabbò..
Vini La Quercia è il riuscito progetto di quattro amici, che lavoravano intorno al vino, e che al giro del secolo decidono di mettere insieme le proprie esperienze e fondare un'azienda che fosse ad immagine e somiglianza di un territorio franco e genuino. Come l'albero simbolo dell'azienda, dal 2000 ad oggi, La Quercia cresce forte e vigorosa con radici salde e la chioma che sale sempre più in alto. Oggi, i quindici ettari di proprietà (di cui dodici a vigneto e tre ad uliveto) consentono di produrre Montepulciano, Trebbiano, Pecorino, Passerina e Montonico.
Naturalmente, il mio " periodo bianchista " e le antiche riminiscenze storico-archeologiche appuntano la mia attenzione sul Montonico. Questo è il panda dell'ampelografia abruzzese e La Quercia ha avuto un ruolo non secondario nel suo salvataggio. L'azienda lo produce in purezza per due etichette: un intrigante Metodo Classico "Pathos" e la versione ferma Abruzzo Dop Montonico. Inoltre il panda entra in alcuni uvaggi, ad esempio in "Eteros" lo spumante metodo Martinotti . Il numero di bottiglie è sempre limitato.
Elisabetta Di Berardino è persona gentilissima e generosa, presente al punto vendita mi fornisce un Pathos, un 2016 e l'ultima bottiglia 2014, per dare un'occhiata a come evolve nel tempo.
Il Montonico è vite di montagna, coltivato tra queste colline certamente dal tempo dei romani, con buona probabilità anche prima: caratteristiche ed alcune affinità genetiche fanno pensare ad un'origine peloponnesiaca ma quello che è certo è che si tratta di un autoctono del teramano e dell'ascolano, conosciuto con millemila nomi (uva raccioppoluta, trebbiano di montagna...) e certamente diverso dal Montonico di Calabria. Diffusissimo nel Diciassettesimo e Diciottesimo secolo, via via è andato scomparendo perchè ha un carattere un po' difficile: è a maturazione tardiva, arriva allo zenith solo verso la fine di ottobre, è vigoroso ma non fertilissimo, è mediamente produttivo, ma non tanto quanto un trebbiano ad esempio. Queste ed altre difficoltà ne hanno ridotto la presenza quasi solo ai comuni di Bisenti e Cermignano. Ciononostante regala grappoli grandi, con acini compatti e dalla buccia spessa, resiste bene a peronospera ed oidio e alle avversità meteorologiche della montagna o delle colline a ridosso del Gran Sasso. Uva tosta insomma.

"Pathos" Montonico Metodo Classico Pas Dosé 12,7%


Durante la permanenza napoleonica nel Regno delle Due Sicilie, l'esercito francese ebbe modo di apprezzare un vino bianco particolarmente profumato,  di bella sapidità e con leggero pétillant, che tanto ricordava l'aria di casa da definirlo "pétit champagne".
Sulla scorta di questo fatto, storicamente accertato, nasce il Metodo Classico Pathos. Montonico in purezza, limitatissimo numero di bottiglie: un migliaio o poco più.
Il Pathos è un pas dosé, ottenuto da uve appassite brevemente in vigna e permanenza sui lieviti di circa diciotto mesi. Si presenta giallo paglierino scarico, con ricca spuma fragrante. Il perlage fine ma solo abbastanza persistente. Il bouquet olfattivo ruota su sentori di frutta secca, fieno e ginestra. Fine e piacevole, di media intensità. Al palato è secco, abbastanza caldo ( i quasi tredici gradi si fanno notare poco) e abbastanza morbido. Il versante delle durezze è dominato dalla sapidità. Equilibrato per la tipologia, abbastanza intenso e di buona persistenza. Da consumare con primi di mare a tendenza dolce: risotto agli scampi. Oppure con secondi di carne bianca: tacchino alla canzanese.

85/100

 Santapupa Montonico Superiore DOP  2016 11,5%



Santapupa è nome che ben si addice a questo vino, in onore del folklore locale che vede una figura femminile in cartapesta danzare a chiusura delle feste patronali abruzzesi. Ma "mannaggia Santapupa" è anche una tipica imprecazione che facilmente possiamo immaginare sulla bocca di chi si avventura nella produzione di quest'uva e questo vino. Il risultato è un giallo paglierino con riflessi verdolini, abbastanza consistente, dal naso fine e delicato: profumi floreali, frutta a polpa bianca, note vegetali. In bocca: secco, abbastanza caldo, morbido, fresco e sapido. Stupisce per la sua innata rotondità. Il palato ne è piacevolmente avvolto e nonostante gli 11,5% sembra più corposo e materico. La sapidità sempre possente è qui ben armonizzata dalla freschezza e attenuata dalla morbidezza con sorprendente equilibrio. 

Anche intensità e persistenza ne guadagnano con un piacevole finale ammandorlato. Veramente un ottimo risultato per un vino che ambisce ad essere semplice e beverino.  Ottimo da aperitivo, perfetto con porcino grigliato.

88/100

Santapupa Montonico Superiore DOP  2014 11,5%

Montonico alla prova del tempo. Già al momento di versarlo si percepisce il cammino che ha compiuto: il colore è nettamente giallo dorato vivo, la consistenza sembra maggiore roteando il calice. Il bouquet olfattivo è più ampio: note mielose aprono le danze al fruttato evoluto di confettura, il vegetale è ormai ridotto a foglia secca, i fiori sono appassiti e sullo sfondo un'aria liquorosa lega il tutto. Bella impressione. In bocca la vividezza del colore si conferma con la sapidità di nuovo in primo piano, come per lo spumante. L'acidità è ancora presente ma ha iniziato la sua parabola discendente, la morbidezza è sempre al massimo, gli alcoli danno più calore che nella versione precedente, ma forse è autosuggestione. Deglutito il sorso rimane una bella intensità in bocca e la buona persistenza, di cui abbiamo detto sopra, si conferma. Ancora in equilibrio dopo quasi tre anni in bottiglia.

85/100

Alla fine il Montonico che preferisco è quello d'annata. Lo spumante è proprio buono, più vicino ai francesi che ai nostri metodo classico per la sapidità veramente notevole. L'annata 2014 è interessante ed apre curiosità sulle aspettative di vita di un vino bianco che non affina in legno e vorrebbe essere di consumo immediato, ma quando la materia prima è di ottima qualità...
Sogno di una notte di mezza primavera: un Montonico versione passito con fermentazione ed affinamento in legno grande. Il duro è provarci, ma il risultato potrebbe essere straordinario. Ai posteri..
Bell'azienda La Quercia, pochi fronzoli e tanta sostanza. Un'azienda dove si tanto si lavora e poco si filosofeggia. Da segnare in agenda, e non vi ho ancora raccontato del Red Side! Del Mastrobono DOCG Riserva e dei suoi fratelli... Ma questa è un'altra favola

Coming soon





giovedì 16 marzo 2017

Ritardate l'arrivo ad Itaca, l'importante è il cammino






















In una delle sue ultime canzoni riuscite, Guccini si immagina Ulisse che ripercorre la sua storia: Itaca, dove "ulivi e armenti erano i miei ori" e poi il richiamo dell'avventura "le concavi navi dalle vele nere" a solcare il Mediterraneo dov'era Nausicaa e dove le Sirene. E la memoria a confondere tale oblio perchè il senso non era la sequenza di eventi ma il percorrere quel sentiero "in mesi, anni o soltanto settimane".
E' il tema universale dell'uomo che segue una strada segnata nel suo destino per divenatare quello che è: non importa se il sentiero è una rotta di mare e le mani stringono un timone che segna la scia bianca tra le onde alle proprie spalle, o un tratturo di terra battuta con le mani attorno ad un bastone e un bianco gregge alle spalle. Il sentiero è sempre lo stesso e l'uomo lo percorre da sempre, è il sentiero dell'essere di parmenidea enunciazione.
Così, lungo il sentiero, fai una fermata quasi casuale con gli Amici della Confraternita del Grappolo in una glaciale mattina di marzo a Rosciano (Pescara) e ti infili in una cantina minuscola che ti ripari dal vento e ti rifocilli a dovere. La cantina è Falon del signor Silvano Falone.
Il signor Silvano è come lo vedete qui  a lato: le mani ruvide da uomo di terra, un po' di timidezza verso questi invasori e dietro gli occhiali occhi intelligenti e colti, che molte storie potrebbero raccontare.
Inizia a raccontare quella del suo vino, proveniente da un ettaro (uno) di Montepulciano d'Abruzzo sulla prima linea di colline che dal Pescara guarda verso il Gran Sasso. Zona vocata: grandi realtà regionali a pochi passi, ma lui vuole solo fare un vino genuino che gli ricordi la sua infanzia e prosegua nel tempo a ricordarla ad altri. Produce Montepulciano, Olio e qualche cereale: è un'azienda agricola vera, polifunzionale come tutte le aziende agricole vere. La sua narrazione è semplice e piana, senza le iperbole eroiche, i voli pindarici e le vanterie tronfie di tanta gente che fa il business del vino come farebbe il business delle scarpe da tennis. E ci racconta con pochi tratti di questo ettaruccio di vigna, delle 8-10000 bottiglie che ne ricava ogni anno, di come si sia affidato per gli aspetti enologici all'ottimo Loriano Di Sabatino. E intanto versa da bere, poi ci lascia a meditare mentre va ad affettarci una pagnotta di pane fatto in casa, con la farina del suo grano, bagnata dal suo Extravergine..
Le etichette che produce la casa sono attualmente due: un Montepulciano d'annata che affina in acciaio e poi in bottiglia ("A pà") e un Montepulciano che invece affina in botti di rovere per almeno diciotto mesi ("Keleuthos"). Sarebbe in arrivo, ma non è ancora pronto, un metodo classico a base Chardonnay e Pecorino da uve prodotte da un'azienda vicina: attendiamo.

"A pà" Montepulciano d'Abruzzo DOC Colline Pescaresi, 2015 13,5%
 
Versato, si presenta nel classico rubino compatto, impenetrabile: l'unghia  violacea mostra i segni di una maturità non ancora piena. La massa nel bicchiere è importante e lascia immaginare una buona struttura. Al naso esprime con intensità la tipicità del grande autoctono: frutta rossa matura, sfalcio d'erba su fondo floreale.
In bocca è secco, caldo (i 13,50% sono un po' sottostimati), abbastanza morbido. La gioventù che si scorgeva è confermata da una una freschezza piena e dalla presenza solida dei tannini, la mineralità  è solo accennata. Abbastanza in equilibrio tutte le componenti, mediamente persistente dopo la deglutizione e con un corpo presente ma non pesante. L'intensità gustativa è avvolgente. Maturo e abbastanza armonico è ottimo compagno di un buon pecorino di Farindola o una bella bruschetta con la ventricina teramana.


82/100


"Keleuthos" Montepulciano d'Abruzzo DOC Colline Pescaresi, 2011 14,5%

E' l'orgoglio del signor Silvano: si vede da come ne parla, si sente il sentimento. Al bicchiere si presenta austero, rosso rubino impenetrabile con l'unghia non ancora aranciata. Pienamente consistente, ruota nel calice con possenza: archetti fitti e lacrime pesanti. Il naso trova subito l'evoluzione con intensità: i bei frutti rossi assumono forma di marmellata, la speziatura è dolce e netta ma non così invadente da cambiare i connotati tipici del vitigno, la nota vegetale è adesso secca e si accompagna ad un rametto di mentuccia appassito. Complesso e fine.
Secco, caldo e morbido, è ancora pienamente fresco. I tannini voluminosi sono in evidenza, ma lo svolgimento della malolattica li ha resi quasi laccati, sapidità media. Anche qui, il corpo non si mostra esile, ma è fine e non disturba: un buon risultato considerato il vitigno, l'epoca di raccolta (fine ottobre), l'ambiente pedoclimatico (le colline pescaresi a quest'altezza possono essere molto calde) e le tecniche applicate.
L'intensità gusto-olfattiva è dominante sulla persistenza: da un bel Montepulciano così ci si attenderebbe un po' di lunghezza in più, ma nel complesso piace. Raggiunge l'equilibrio, in un'annata più fredda potrebbe ambire a punteggi più elevati. Tutto il sorso è giocato sulle note morbide, già annunciato dall'olfazione, il grado alcolico elevato, l'ottima tannicità e la buona freschezza riportano il tutto in un equilibrio piacevole. Ottimo con pancetta di maiale in porchetta, ma anche con un bell'agnello ai carciofi.   

86/100


In conclusione due buoni vini, che ben rappresentano l'identità del territorio ma anche del produttore, e che hanno nella sincerità la loro qualità migliore. Senza fronzoli e senza disquisizioni filosofiche sui "vini veri" e meno veri, l'azienda Falon mira alla sostanza. Il verdetto è che la sostanza c'è, ed è piacevole e di qualità. La realtà è microscopica, ma senza queste aziende si perderebbero fette importantissime del patrimonio culturale e agricolo, e non ce lo possiamo permettere. Gli anctichi sentieri del vino fatto con passione ancestrale, come fosse destinato al consumo domestico, devono continuare ad essere percorsi. Keleuthos deve ancora essere percorso e il vino deve continuare ad accompagnare ed alleviare la fatica dei campi.
Ritardate l'arrivo ad Itaca, l'importante è il cammino.